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Da tempo chi vive nel benessere ma anche nel vuoto del materialismo, tipico delle società occidentali, fa esperienza del fascino che esercita il pensiero orientale. Ma quale reale effetto può avere, nel mondo disincantato della tecnica, l'idea che tutto ciò che i nostri sensi attestano sia soltanto un'illusoria parvenza, un velo di Maya? O che le anime individuali siano destinate a trasmigrare in altri corpi fino alla definitiva realizzazione? E chi è davvero disposto a credere in immagini mitologiche come il samsara, il nirvana o Shiva ed il suo oceano di latte?
Per la mentalità occidentale che non separa la filosofia dal suo vocabolario greco è arduo entrare nel complesso delle dottrine metafisiche della tradizione indù. La tendenza dominante è quella comunque che assegna le dottrine orientali alla storia delle religioni piuttosto che a quella del pensiero filosofico. A confermarlo, basta sfogliare i manuali di storia della filosofia oggi in uso: quanti contemplano anche il pensiero orientale?
Eppure esistono trattati come le Upanishad, capaci di investigare la natura più profonda dell’uomo con un senso realizzativo e non solo di puro linguaggio. Questi trattati di estensione variabile, appartenenti ad epoche diverse, in prosa e in versi, sono dedite a indirizzare l'aspirante alla verità trascendente attraverso la contemplazione o la stimolazione della buddhi (intelletto), altre attraverso l'ascolto delle verità supreme che vertono sull’origine e il destino dell'uomo e su quale sia il fondamento ultimo dell'universo.
Le Upanishad costituiscono la parte conclusiva dei Veda. In origine diverse migliaia, ne rimangono più di 200, benché‚ per tradizione, quelle più considerate siano 108. La loro datazione è incerta: le più antiche dovrebbero risalire all'VIII e al VII secolo a.C., antecedenti all'era buddista; le più recenti al V o al IV secolo a.C. Ma le Upanisad veramente importanti e tipiche sono poco più d'una dozzina e sono denominate Upanishad antiche e medie oppure vediche, appartenenti alle varie scuole che si rifanno alle Samhita vediche e quindi fanno parte della rivelazione, e risalgono a un periodo compreso, tra il 700 e il 300 a.C. Le Upanishad sono state portate a noi dai rishi, che attraverso intense meditazioni hanno udito interiormente il suono della profonda ispirazione del Brahman. Queste Upanishad, appartengono alla letteratura rilevata o sruti (lett.: "ciò che è stato udito" ) al pari dei Veda, esse hanno un carattere religioso - culturale; tuttavia, a differenza di quelli, presentano tratti altamente speculative, tipici dello Jnana Yoga.
In effetti, tutta la filosofia indiana non è altro che un commento alle Upanishad e nell'interpretazione che per lungo tempo ha goduto maggior fortuna e che si attiene al significato più evidente (upa significa vicino, ni significa sotto o giù, shat seduto). Per questo, Upanishad significa che gli studenti dovrebbero stare seduti vicino al maestro e studiare con umiltà e reverenza. Si fa riferimento al carattere esoterico dell'insegnamento, trasmesso dal maestro al discepolo, Guru-chela, che avendone le qualificazioni, gli si sedeva vicino.
Nella Brihadaranyaka Upanishad ad esempio, vi è formulata una cosmologia che illustra come all'inizio c'era soltanto il nulla, il non-essere, dal quale si produsse l'universo. In ogni uomo alberga una scintilla del Brahman, l'energia cosmica: si tratta dell'atman, il principio dell'individualità o il sè personale (di solito, erroneamente tradotto con "anima"; per quanto concerne la possibilità di definire "personale" l'atman). Viene poi data una corrispondenza intima tra il micro e il macrocosmo, sulla base di vari spunti vedici. Ogni creatura riceve qualcosa dal Brahman: l'incarnazione più completa di quest'energia è il brahmano o brahmino, il sacerdote. In questa Upanishad si torna sulla questione delle caste indiane. Tuttavia, nonostante l'evidente enfasi sulla casta brahmanica, nella Upanishad è un guerriero a istruire un sacerdote. Evidentemente alla classe dei Brahmani non era ancora stato assegnato il ruolo di primo piano che avrebbe avuto in seguito. In questa Upanishad si dichiara che del Brahman, la Realtà Ultima, non si può parlare. Nessuna argomentazione verbale riuscirebbe a renderne la vera natura. Per questo motivo , nacque un metodo al negativo che arrivare ad eliminare una dopo l’altra tutte le sovrapposizioni che velano la Natura Ultima delle cose: Neti Neti, "non questo, non quello". Questa sembra essere l'unica espressione applicabile all'energia cosmica.
Viene poi indicata l'identità tra il Brahman e l'atman, tra l'energia impersonale e l'identità personale (4, 4, 5)." tutto il mondo non è altro che l'atman". L'atman è indistruttibile ed eterno. L'uomo dovrà prendere coscienza della propria identità autentica, per capire che il suo atman, la sua propria natura intima, contiene un principio universale. Egli rifuggirà dalle passioni, votandosi all'ascetismo ed un certo punto della propria evoluzione, infine, si lascerà dietro qualsiasi massima o norma etica: sarà libero sia dal male che dal bene. In questo stato d'animo non traccerà più alcuna distinzione tra sè e gli altri, rendendosi conto della perfetta identità tra il Brahman e l'atman. E non potrà più temere nulla: la sua vita sarà immortale, ormai, come quella del cosmo.
Anche nella Chandogya Upanishad, un membro della casta guerriera, cioè un principe, si vedrà più perspicace dei suoi interlocutori brahmani. Il protagonista della Upanishad è il brahmano Uddalaka Aruni. Anche qui viene data una perfetta corrispondenza tra il micro e il macrocosmo: uno stesso fenomeno, il respiro, che pervade ogni ambito dell'universo e continua a sussistere in ogni istante, persino nel sonno profondo. Con alcune varianti, ci si riallaccia alla Briahadaranyaka Upanishad: dal ‘non-essere’ deriva ‘l'essere’; in questo caso, si passa poi alla descrizione dell’origine dell’universo come Lingam, avente forma di uovo cosmico. Al punto culminante della Upanishad, Uddalaka si rivolge al figlio, ammonendolo: "Quello sei tu, Cvetaketu!". " L’espressione Quello, è l'atman, il principio individuale che corrisponde al Brahman, e si cela in ogni essere”. In questo modo, il figlio apprende la propria perfezione. E` l'atman che permette ad un seme di produrre un grande albero. Esso è un'essenza sottile, una forza invisibile che consente ad ogni essere di realizzare la propria natura. E` il respiro vitale, che infonde energia alle creature e in ultima analisi, è il Brahman stesso. Bisogna cercare dentro di sè la propria Sorgente, una scintilla energetica che ospitiamo in un piccolo spazio vuoto del cuore. Se vi si riesce, aiutandosi con la meditazione, i sacrifici e lo studio dei Veda, non ci si ammalerà più, nè si soffrirà o si morirà, perchè la morte è del corpo non del suo principio, il Sè. Così, si entrerà nel mondo del Brahman, per non far più ritorno sulla terra. Il ciclo delle rinascite, samsara, viene interrotto. Un'esistenza eterna attende l'atman, nel suo amplesso con il Brahman, che è la sua stessa fonte, il Sat-Cit-Ananda, ovvero Essere-Coscienza-Beatitudine.
Nella Taittiriya Upanishad invece viene ripresa l’idea dell'identità Brahman-atman. Si dichiara che nella sacra sillaba Om si cela l'essenza del Brahman.
Nella Kena Upanishad si dice che il Brahman non può essere insegnato, nè pensato, nè descritto: nè chi crede di conoscerlo, nè chi crede di non conoscerlo coglie nel segno.
Nella Isà Upanishad si afferma che per vivere il Brahman, bisogna abolire la mentalità dualistica di ‘io’ e ‘tu’: solo così, ad un certo punto, si capirà che nell'alto dei cieli come nel profondo della terra, c'è soltanto il proprio Sè. La distinzione tra noi e gli altri viene annulata, riconoscendo un unico Sè per tutti e solo a quel punto, abbandonando sia la conoscenza che l'ignoranza, si attingerà l'immortalità.
Nella Katha Upanishad si narra dell'incontro tra Naciketas, il primo uomo che morì, e Yama, il Dio della morte.
"Dopo la morte, l'uomo esiste ancora oppure no?" E` questa la domanda angosciante che Naciketas pone a Yama. Ma non otterrà una vera risposta: Yama infatti si limita a dirgli che l'atman è immortale ed eterna (2, 5, 13).
Nella Mundaka Upanishad vengono ammessi due ambiti della conoscenza. Da un lato, c'è il campo delle scienze inferiori: lo studio dei Veda, l'astronomia, la fonetica, la ritualistica, la grammatica, la metrica e l'etimologia. Dall'altro c'è la scienza superiore, il cui oggetto è solo la conoscenza del Brahman attraverso la meditazione (1, 1, 5).
Nella Mandukya Upanishad si parla di quattro stati di coscienza o piani di realtà: Vaichvanara, stato di veglia;Taijasa, stato onirico; Prajnà, stato del sonno profondo;Turiya, stato indefinibile, trascendente. Nel primo la conoscenza dell'adepto si fonda sul pensiero dualistico e sulle distinzioni io e gli altri, richiamandosi agli oggetti dei sensi. Nel secondo si volge invece all'interiorità, cioè agli oggetti del sogno, Nidra. Nel terzo l'adepto non vede più alcuna immagine, quindi può rinunciare ad effettuare la distinzione tra soggetto ed oggetto. Nel quarto, infine, egli non dipende più da alcunché, all'infuori di sè stesso: ha realizzato la perfetta unione, Yoga, tra il Brahmane l'atman. Ormai coltiva una consapevolezza non-duale, evitando di riferirsi alle cose esteriori e a quelle interiori perchè vive tutto impersonalmente. Non c’è più l’idea della persona che fa esperienza, ma resta solo l’esperienza.
La Cketacvatara Upanishad, infine, è quella tra le più recenti delle composizioni antiche. Nel Brahman è insita una trinità: il Divino, atman e " natura " (prakriti). Il Divino è il Signore del mondo, Colui che lo crea, lo mantiene e lo distrugge. A volte è chiamato Rudra, altro nome di Shiva. La natura è illusoria, maya, nient'altro che il prodotto di un gioco di prestigio, Lila, del mago divino. Essa appare in un certo modo, ma non è in quel modo. L'atman è il sè individuale: da un lato, un elemento personale; dall'altro, una componente eterna del Brahman imperituro.
“Colui che, attraverso le opportune pratiche yogiche, scoprirà che il Divino abita nel suo stesso cuore, otterrà la liberazione”.
Il suo atman sarà riassorbito nel Brahman. Anzichè‚ sulla conoscenza, qui si insiste sulla devozione (bhakti) nei confronti del Signore. Questa Upanishad si discosta, per grandi linee dalle altre perchè influenzerà molto la religiosità della massa.
Sri Yogi Pranidhana